Il
Partigiano Dartagnan
Capitolo
primo
Capitolo
Secondo
Capitolo
Terzo
Capitolo
Quarto
Famiglia Cotti
|
Partenza per la leva militare
Alla fine dell'estate 1941 fui chiamato per la leva
militare ed inviato per l'addestramento (quanti
addestramenti!) al decimo autocentro di Napoli.
Sostai una notte a Napoli nella caserma e mi diedero
per cena una gavetta di riso che sembrava colla per
manifesti; mangiai, tanta era la fame, a vent'anni
si ha sempre fame, figurarsi con la razione di
allora!
Il mattino successivo, assieme ad altri, fummo
inviati in distaccamento a Piscinola. |
|
Civiltà
fascista |
Era
questo un piccolo paese, sui tremila abitanti circa,
paese vecchio, case cadenti, scarseggiava l'acqua e
non c'era modo di riscaldarsi d'inverno.
Non ho mai
allacciato rapporti con gli abitanti di quel paese, specie
per la loro avversione ai militari ed anche per la
difficoltà di capirci, avendo loro solo un dialetto molto
somigliante all'albanese.
Un giorno ebbi
occasione di recarmi al magazzino e riuscii ad avere un paio
di scarpe nuove senza averle segnate in mia dotazione;
siccome si era sempre senza soldi, cercai di venderle.
Trovai un anziano al quale interessavano, il prezzo andava
sempre bene, doveva però provarle; mi chiamò a casa sua;
entrammo per una porta sgangherata con tante fessure sotto,
sopra, al centro, senza contare il lavoro fatto dai tarli.
Dentro vi era una gran penombra, poichè la luce entrava da
una finestrella volta verso la strada che, essendo stretta,
già aveva poca luce.
Quando gli occhi si abituarono a quella penombra, vidi
contro il muro un camino spento, fatto un po' coi mattoni,
un po' coi sassi, in un angolo addossata al muro una tavola
abbastanza grande nella quale ai due lati, dove non c'era il
muro, avevano fissato fino all'altezza del piano, una rete
metallica sì da farne un recinto entro cui un numero
imprecisato di conigli mangiava erba. Nell'angolo opposto
quasi al buio vi era legato un somaro che, non avendo nulla
da mangiare, mi fissava con la speranza forse che gli
porgessi qualcosa.
Lo stanzone era alto ed all'altezza circa di tre metri
avevano costruito, sporgente dal muro, una specie di
terrazzo in legno con balaustra sempre in legno nero, non
saprei se per vernice o per sporcizia. |
Si
accedeva a quel balcone attraverso una scala
anch'essa in legno, a pioli come quelle usate una
volta dai nostri contadini per vendemmiare.
Non una sedia.
Il mio compratore s'arrampicò su per quella scala,
sparì oltre la balaustra, si sentì parlottare con
una voce di donna e io non capii nulla; poi scese,
le scarpe andavano bene, mi pagò.
Salutatolo, in fretta uscii.
Mentre me ne andavo pensavo:
- Beh, noi nel 1935 abbiamo portato la civiltà in
Abissinia? E qui chi la porterà?
Nel duemila questa civiltà ci sarà ancora? - |
|
Sud |
Nella
primavera avanzata del 1942, come autiere, fui
inviato in Russia presso il 7° Parcauto di stanza a
Dnepropetrovsk prima, poi a Stalino e quindi a
Vorosilovgrad.
Il viaggio in tradotta (convoglio militare
ferroviario) durò ventidue giorni.
Eravamo una trentina e passa di militari entro un
carro bestiame, su uno strato di paglia, buttato sul
pavimento; si mangiava, si beveva, si dormiva, si
svolgeva tutta la vita. Dopo pochi giorni quindi
eravamo così pieni di pidocchi da rendere inutile
ormai cercare di eliminarli.
Ai confini della Romania vi era un comando, tappa di
assistenza ai militari di passaggio; fu offerto un
caffè a tutti (caffè d'orzo ovviamente); per due
carbovanez (marchi di occupazione) si poteva
comprare una bottiglia di liquore; ci recammo per
l'acquisto, ma ai militari non venivano vendute.
A un ufficiale fino a cinque bottiglie, a un
sottufficiale una bottiglia, a tutti gli altri
nulla.
Una bottiglia, un niente, che però lasciava acredine
agli esclusi.
Ci si chiedeva: - Perchè in Russia? Per la Patria?
Che cosa c'entrava? Perchè andavamo a combattere?
Per chi poteva avere cinque bottiglie? O anch'essi
assieme a noi per chi in Italia le bottiglie le
usava per fare milioni?
Portavamo la civiltà?
Ma chi ce l'aveva chiesta la nostra civiltà?
Civiltà di mezzadri da decenni a debito, di
braccianti disoccupati permanentemente per i quali
il pasto che non saltavano, era composto di polenta,
sempre e solo polenta, magari con radicchi raccolti
lungo l'argine di un fiume?
Per portare la libertà? - La libertà!
|
Mi
ricordai di un avvenimento vissuto durante la mia
infanzia.
Avevo sei anni e, con mio
nonno,
mi trovavo il 14 novembre sotto al portico del
Palazzo Comunale; a Persiceto vi era molta gente,
passò un drappello di camicie nere con il
gagliardetto in testa per recarsi al cimitero; tutti
salutarono o con la mano tesa o levandosi il
cappello, uno no, uno solo in mezzo a tanti non
salutò.
Uscì dal drappello un milite armato di bastone, gli
si avventò contro e, a forza di manganellate e di
calci, lo ridusse in condizioni pietose, lo percosse
ancora fino a che in terra non si mosse più.
Noi portavamo questa libertà?
O la cultura italiana? |
|
Camicie
nere |
Nel
nostro carro vi erano tre analfabeti che, per
rendersi conto di quale fosse la destra, per un
certo periodo occorse legare un nastro al braccio,
solo così la distinguevano. Provenienti dall'interno
della "Bassa Italia"; dalle isole, erano italiani,
una grande cultura però non l'avrebbero, non
l'avremmo portata!
Queste riflessioni si accavallavano, mentre, pieni
di pidocchi, a passo di lumaca, ci si muoveva verso
il fronte.
L'attraversamento della Jugoslavia a noi giovani,
ignari di tutto, ci sorprese alquanto; ad ogni ponte
ferroviario vi erano cavalli di frisia che lo
circondavano ed un certo numero di militari di
guardia giorno e notte; ogni viadotto, ogni
strozzatura del terreno, ogni tratto costeggiante
strade era non solo difeso con cavalli di frisia, ma
con fortini in cemento armato, poichè i partigiani
iugoslavi, fin dai primi giorni dell'occupazione
tedesca, si erano organizzati clandestinamente e
furono attivissimi fino alla loro vittoria.
Arrivammo poi,
attraverso la Romania, in Ucraina.
Qui appena percorsi alcuni chilometri, la tradotta si fermò
e rimanemmo per due giorni.
Forse un tempo vi era una stazione, un paesino, ma quando
arrivammo noi, apparivano solo macerie, erano rimaste due o
tre case basse, coperte con canne e con muri di terra
impastata, spessissimi per riparare dal gran freddo
invernale, le finestre a doppia vetrata.
Davanti ad una di queste case sorgeva un grosso pero alto,
in terra erano cadute molte pere, io ne raccolsi una decina
e mi recai nella casa abitata da una sola donna anziana, per
pagarle.
Chiesi se l'albero fosse suo ed alla risposta affermativa
feci vedere i frutti allungandole una banconota, lei scosse
la testa, ne porsi due, ma rifiutò ancora, facendomi capire
che non voleva nulla e mi chiese additandomi:
- Deutsch (Doic)?
- Niet. Italianschi, buoni, buoni Italiani - Forse era la
prima volta che un militare intendeva pagare.
Finalmente arrivammo a destinazione, scendemmo dalla
tradotta in mezzo ad un andirivieni di militari tedeschi e
rumeni, ufficiali che urlavano, tradotte cariche di carri
armati in procinto di riprendere la marcia verso il fronte,
quando l'unico binario rifatto lo avesse permesso.
I russi infatti nella loro ritirata avevano distrutto tutti
i binari esistenti.
Tradotte cariche di prigionieri russi stipati in carri
bestiame con inferriate ai finestrini in attesa di partire
per i campi di concentramento.
Era Dnepropetrovsk una grande città, anche se mezza
distrutta si capiva che era paragonabile alle nostre
principali.
Salimmo su automezzi italiani, l'attraversammo tutta e fummo
portati a quella che prima della guerra era la città
universitaria: una decina di nuovi fabbricati con al centro
una piazza ed un statua di gesso, siccome mancava mezzo
busto noi lo chiamammo "monumento alle mutande". |
|